Nel Mahābhārata si parla di un sacerdote le cui araṇi, ossia i bastoncini necessari per accendere il fuoco del sacrificio, erano state trascinate via da un grosso cervo ed erano rimaste impigliate nelle sue corna. Egli si rivolse allora ai cinque fratelli Pāṇḍava, implorandoli di recuperare i suoi imprescindibili strumenti di lavoro. Fu così che essi seguirono l’animale inoltrandosi nella foresta ma, a un certo punto, si fermarono stremati dalla sete e, uno dopo l’altro, si avvicinarono a uno stagno nel quale vi era una misteriosa gru che, tipo una sfinge, poneva degli indovinelli. Ma quando Nakula, Sahadeva, Arjuna e Bhīma, vinti dall’arsura e ignorando quella voce, provarono a bere l’acqua morirono all’istante. Fu infine il turno di Yudhiṣṭhira che, vedendo i corpi esamini dei suoi quattro fratelli, pianse sconvolto da quelle misteriose morti circa le quali rivendicò immediatamente la propria responsabilità quella strana gru che si rivelò essere uno yakṣa (un essere semidivino). A quel punto Yudhiṣṭhira, anziché incorrere nel medesimo errore di avventatezza dei suoi fratelli, decise di rispondere ai circa cento quesiti posti dal misterioso spiritello semidivino fra cui ne vorrei mettere in luce uno: “Qual è”, chiese lo yakṣa, “la cosa più stupefacente del mondo?”. La risposta di Yudhiṣṭhira è davvero attuale e inesauribile: “Giorno dopo giorno, ora dopo ora, gli uomini muoiono e i loro cadaveri vengono portati via. I vivi osservano, eppure non pensano che un giorno o l’altro anche loro moriranno. Credono invece che vivranno per sempre. E’ questa la cosa più stupefacente del mondo”.
Personalmente trovo questa risposta in linea con ciò che sostiene l’antropologo Ernest Becker in “The Deneal of Death” del 1973, ossia che “l’universale paura della morte si è manifestata nella cultura occidentale contemporanea come una tendenza a fingere che la morte non esista”.