Le prime attestazioni di questo sostantivo sanscrito femminile dall’etimo piuttosto incerto sono riconducibili a vari oggetti come la moneta, il sigillo e i primi metodi di calcolo. Ciononostante, il suo contesto d’uso primario e più arcaico va probabilmente ricondotto all’ambito artistico e più segnatamente alle opere teatrali e alla danza, ove riveste il significato di “gesto” rigorosamente codificato da effettuarsi per mezzo delle mani. Il termine, poi, penetra nelle tradizioni tantriche e nello yoga: se presso i lignaggi iniziatici tantrici, in estrema sintesi, le mudrā sono atteggiamenti fisici e gesti di riconoscimento utilizzati nel contesto rituale allo scopo di ottenere determinate acquisizioni sovrannaturali e favorire la possessione della divinità a cui sono associate; nelle tradizioni haṭhayoga esse, seppur variando da testo a testo, sono metodi di manipolazione delle energie vitali e vengono appunto utilizzate al fine di “sigillare”/trattenere il respiro e le energie vitali cosicché potessero essere sviluppate quelle condizioni psicofisiche essenziali per risvegliare e convogliare la forza latente (kuṇḍalinī).